Città di Frontiera Capitolo 11
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Un’estate troppo calda

È stata un’estate calda, molto calda e anche nei mesi successivi la cappa di calore si è fatta sentire.

Caldo, troppo caldo, troppo per essere già alla metà di ottobre. Dicono sia stato il settembre (e ottobre?) più caldo di tutti i tempi; mettici anche luglio, di certo, non è stato da meno.

Il tempo è impazzito o si è semplicemente rotto le scatole di essere violentato da questi stupratori a due zampe che infestano il pianeta. Ora gira attorno al globo in cerca di vendetta e giustizia, e miete vittime a migliaia di migliaia. El Niño a confronto è un bambino brufoloso in cerca di una notorietà perduta.

Il terremoto in Marocco, l’alluvione in Libia… e poi le guerre. Guerre sempre più vicine, Russia/Ucraina Israele/Palestina; guerre da cui non puoi distogliere lo sguardo, con orde di hooligan che si sono date appuntamento nel parcheggio dello stadio, per darsele di santa ragione a difesa dei loro “campioni”.

Sembra quasi che i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse si siano dati infine appuntamento, per assistere all’apertura degli ultimi sigilli prima del Giudizio Universale: Guerra, Carestia e Morte. USA, Russia, Cina e India, Israele…

Q.BO’, come non si gestisce un club (1)

È un autunno caldo, come quelli operai degli anni ’70, forse troppo anche per l’orario serale, mentre sfoglio le pagine di “Haçienda Come non si gestisce un club” di Peter Hook. È così che mi è tornato in mente il Q.BO. Vai te a capire perché

Io non se il Q.BO’, al pari del club della Factory, sia stato uno dei “locali più leggendari del pianeta”, di sicuro è che molte delle storie che si possono raccontare sul Q.BO’, sembrano muoversi sulla stessa lunghezza d’onda dei pensieri di Tony Wilson e gli altri colpevoli di quell’avventura.

Potrei raccontarla io la storia del Q.BO’. Certo potrei ma sarebbe solo una piccola scheggia di quello che quella rumorosa esplosione creativa provocò nella città di Bologna, piazzando il suo ground zero in via Valparaíso 13. Quartiere Bolognina.

Il Q.BO’ non è stato “un” locale ma mille locali diversi tutti nello stesso luogo fisico ed io ero solo uno di quei mille corpi in movimento. Questo è anche il motivo per cui la mia versione del Q.BO’, non può essere presa ad esempio come “La storia del Q.BO’” che poi è, credo, quello che lo stesso Peter Hook ha raccontato nel suo libro.

Se ti ricordi degli anni ’60, non li hai vissuti

Certo, potrei raccontarla io, magari iniziando dalla fine se non ci fosse il problema che mica me la ricordo io, quell’ultima serata del 1987. Mi consola ancora una volta Hooky, sempre con una frase con tenuta nel suo libro. Mi consola perché, se non la ricordo come molte altre cose del mio passato, vuol dire che le ho vissute:

  “SE TI RICORDI DEGLI ANNI ’60, NON LI HAI VISSUTI VERAMENTE

Ok, va tutto bene ma se non me la ricordo, come posso raccontare la (mia) storia del Q.BO’?

Maurizio Stanzani è il Q.BO’

Non lo so, posso dire che per me il Q.BO’ è stato Maurizio Stanzani, senza nulla togliere a tutte le altre persone che hanno speso sudore e sangue in quel progetto, anche se poi non lo posso paragonare al Peter Hook della Haçienda. Forse più a Tony Wilson che pensava al locale di Manchester, più come ad una “sala concerti” o comunque ad un luogo dove proporre musica e spettacolo che cogliesse il senso del futuro che in quegli anni si poteva respirare in certi ambienti. Ma solo in quelli, dato che qualcuno lo definì il primo locale Multimediale d’Italia.

Quello che posso dire con certezza, perché lo ricordo, è che io nel 1985, a tutto pensavo men che alla “discoteca”. Anzi, quel tipo di intrattenimento/spettacolo per me era qualcosa da cui fuggire, cosa che peraltro avevo fatto un anno prima per l’imperversare della Italo-Disco, quella brutta e commerciale però.

Quella che da Milano aveva svuotato quanto di buono stava nascendo nella “new wave” italiana e ti dirò, non sono neppure così sicuro che new wave sia il termine più adatto perché non vorrei fosse inteso come fosse un genere, tipo l’Indie per l’Italia.

Forse è meglio dire tutto quello che anche in Italia riuscì a fiorire nel dopo punk con il post-punk. Successe che, non so perché, Moreno Sarti, uno degli editori di Radio Play Studio dove lavoravo, intorno al 1981/82 mi iscrisse, senza dirmelo, ad un contest tra DJ.

Hai presente “quelli belli” dove vince chi ha più amici (che consuma al bar per la gioia del gestore in astinenza di incassi)? Ecco, quelli.

La gente di Musica non capisce un cazzo!

Ora, io mi preparai con grande impegno a quella (inutile) mezz’ora con un set a cavallo tra il synth pop e quella che si potrebbe anche definire come un’idea di house o electro-funk. A me come a Mike Pickering, è sempre piaciuto rompere i confini dei generi musicali, per farli vivere insieme, magari anche solo per trenta minuti. Poi se la pista si svuota, chi se ne frega!
Qual è il motto del DJ che se la tira in casi come questi?

“la gente di Musica non capisce un cazzo!”

Comunque fosse andata quella gara tra aspiranti DJ, quell’idea di Moreno mi aprì le porte alla mia prima vera discoteca: il Beethoven Video Discoteca di Casalecchio, dove nelle serate di giovedì, venerdì (poi ceduta) e sabato, ero quel che si poteva definire il “Resident DJ” in tempi ancora quando la serata te la dovevi ciucciare tutta, per intero, tu da solo.

Era il 1983 e tutto stava cambiando

Mi ritrovai così a ricoprire un ruolo che non mi aveva mai particolarmente attratto, forse perché legato troppo agli umori della pista anche se portava grandi vantaggi… con le sbarbe, quando io invece sentivo dentro di me, solo la forza della espressione personale.
Mi ritrovai così a ricoprire quel ruolo in un anno cruciale per la musica che amavo: il 1983, un anno dove tutto finiva e qualcosa cominciava.

Un anno, il 1983 che segna una svolta nella musica e comincia a marcare anche la mia vita nel raggiungimento di una piena consapevolezza.

(continua nel prossimo episodio)