Tutti sono DJ, nessuno è più DJ
Reading Time: 5 minutesTutti sono DJ, nessuno è più DJ: la crisi della club culture italiana non è solo questione di numeri. Oltre 2.100 discoteche chiuse in 14 anni raccontano la fine di un’epoca. Andrea Lai analizza “l’estinzione del deejay” e la trasformazione del DJ da antenna culturale a fornitore di soundtrack. Dall’eredità del Cocoricò alla mutazione luxury del Phi Beach, un’indagine sulla perdita dell’identità culturale del clubbing italiano.
Dj marky at lov.e club" di Moretti - Own work Fonte: Wikimedia Commons Licenza: CC BY-SA]
Quando la democratizzazione uccide ciò che dovrebbe liberare
Il paradosso sotto i nostri occhi
C’è qualcosa di profondamente sbagliato quando una persona che mixa in un bagno diventa virale come “DJ” mentre a Londra chiudono dieci club al mese. Non è solo una questione di numeri o di mode social: è il sintomo di una mutazione culturale che sta sotto i nostri occhi, ma che facciamo fatica a decifrare. È la trasformazione culturale dove tutti sono DJ, nessuno è più DJ.
Andrea Lai, che questa mutazione l’ha vista dall’interno – dal Fabric di Londra all’Agatha del Brancaleone, da Sony Music alle pagine de Il Manifesto – l’ha chiamata senza giri di parole: “L’estinzione del deejay“. E ha ragione, ma forse il problema è ancora più ampio di quello che sembra.
L’antenna spezzata
Nel suo saggio su Il Manifesto, Lai individua il cuore del problema con precisione chirurgica: “Il disc jockey è stato agente di mediazione culturale attraverso la manipolazione temporale e spaziale del suono, un’antenna che ha saputo ricevere istanze e trasmettere senso”. Con il cambio di panorama sociale, però, “ha perso il ruolo di entità ordinante delle istanze giovanili postmoderne”.
L’antenna si è spezzata. Ma perché? E soprattutto: cosa succede quando un mediatore culturale perde la capacità di mediare?
Succede che proliferano i simulacri. Che l’estetica diventa più importante della sostanza. Che tutti possono fare tutto, e quindi nessuno fa davvero niente.
Il teatro dell’assurdo
Lai descrive con lucidità chirurgica la deriva: “il fatto che una persona ripresa mentre mischia dischi chiusa in un cesso di 5 m² mascherata con un costume di scena scelto per l’occasione, sia percepita come un dj solo perché mima le azioni di un dj, finisce per parodizzare l’intera cultura del clubbing.”
È il teatro dell’assurdo della nostra epoca: la performance sostituisce la funzione. Non importa più cosa fai, importa come appari mentre lo fai. Il DJ diventa una maschera che chiunque può indossare, svuotata del suo significato originario.
Spazi perduti, senso perduto
Ma c’è un altro livello del problema: la perdita fisica degli spazi. I numeri della Night Time Industries Association sono impietosi: entro fine 2029 l’Inghilterra potrebbe non avere più club. “Come se in Italia chiudessero il Festival di Sanremo“, scrive Lai.
I numeri italiani confermano e superano la catastrofe britannica. Se nel Regno Unito la Night Time Industries Association prevede l’estinzione di tutti i club entro il 2030, in Italia il collasso è già realtà: negli ultimi 14 anni sono state chiuse oltre 2.100 discoteche, passando dalle circa 7.000 degli anni ’90 a una riduzione del 52%. Tra il 2010 e il 2023 si contano 2.698 chiusure contro appena 630 nuove aperture.
Il calo delle discoteche (-52%) supera persino la diminuzione demografica dei diciottenni (-46% tra il 1983 e il 2006), confermando che non si tratta solo di demografia. Secondo i dati più recenti dell’Agenzia delle Entrate, nel 2018 esistevano 1.057 contribuenti nella categoria “Discoteche, sale da ballo, night club”, mentre le stime del settore oscillano tra 1.000 e 3.500 locali totali.
Il panorama attuale racconta di templi del clubbing trasformati in banche, supermercati, parcheggi e centri commerciali: il Naxos di Torino è diventato un Basko, il Vanilla di Genova una Coop, lo Studio Zeta di Caravaggio un centro commerciale. A Milano si rimpiange la scomparsa del Rolling Stone, sostituito da un condominio di tredici piani.
Nella classifica mondiale DJ Mag Top 100 Clubs 2024 l’Italia piazza solo quattro club: Phi Beach (61°), After Caposile (82°), CROMIE DISCO (92°), Spazio 900 (97°) – un’ombra del Paese che un tempo ospitava alcune delle discoteche più grandi e belle d’Europa.
Non è solo nostalgia per i “bei tempi andati”. È la scomparsa di ecosistemi culturali specifici, sostituiti da contesti ibridi dove il DJ diventa soundtrack di altre attività: aperitivi, shopping, yoga. La musica come tappezzeria sonora, non come esperienza collettiva trasformativa.
Le ragioni del disastro
Le cause sono multiple e si intrecciano in modo complesso. Le nuove generazioni hanno cambiato abitudini: bevono meno, usano gli smartphone che inibiscono l’abbandono fisico, vivono la paura costante di essere ripresi. Il divieto di fumare spezza i flussi dell’esperienza collettiva.
Ma soprattutto: la musica che muove le generazioni non è più quella dei club. Come nota Lai, “la dance non è più la musica del giorno e della strada”, soppiantata dalla trap che ha spostato “il fulcro del pop progressista dal club alla strada, quella stessa strada che la dance diserta da decenni”.
E sospendiamo, almeno per ora, il giudizio su cosa potrà essere, in futuro, l’Hyperpop.
Club culture vs luxury entertainment
Eppure, in mezzo a questa estinzione culturale, proliferano le narrative burocratiche – licenze, patentini, certificazioni – come se l’amministrazione potesse sostituire l’ispirazione. Ma il vero problema è altrove.
I quattro club italiani sopravvissuti nella classifica mondiale DJ Mag raccontano una storia emblematica: Phi Beach in Costa Smeralda (61°), After Caposile vicino Jesolo (82°), CROMIE DISCO a Castellaneta Marina (92°), Spazio 900 a Roma EUR (97°).
Tra questi, solo After Caposile sembra mantenere un legame con l’autentica club culture italiana – quella nata sulla Riviera Romagnola (la Costa Orientale, come amavo definirla nelle mie trasmissioni alla radio) con il Cocoricò, che per decenni è stato laboratorio di sperimentazione culturale, non spettacolo per turisti. O come l’Ethos Mama Club e il Q.BO’ di Bologna, luoghi dove il DJ era davvero “antenna culturale”: riceveva istanze dalla strada, le elaborava, le ritrasmetteva trasformate.
Phi Beach, invece, con i suoi €300+ a notte, partnership Mercedes-Benz e “Clicquot Island tra le 5 terrazze più esclusive al mondo”, rappresenta la mutazione completa: da laboratorio sociale a luxury entertainment. Stesso sound, sociologia opposta.
La strada del kintsugi
Forse c’è una via d’uscita, e Lai la intravede nell’esempio del DJ giapponese Yousuke Yukimatsu, che al Boiler Room Tokyo suona “terribilmente serio” musica che spazia da Skrillex agli hyperpop, creando “momenti di trascendenze emotive sincere attraverso la manipolazione tecnologica“.
L’arte del kintsugi: riparare le crepe con l’oro, non nasconderle. Riconoscere la frattura e costruire a partire da quella, non fingere che non esista.
La perdita dell’antenna
La domanda vera non è se ci siano ancora DJ, ma se esistano ancora luoghi dove il DJ possa essere qualcosa di più di un jukebox umano in maschera o di un fornitore di soundtrack per aperitivi.
Quando il Cocoricò chiude, quando il Q.BO’ diventa ricordo, quando gli Ethos si trasformano in concept store, non muoiono solo dei locali: muore un’ecologia culturale. Muore la possibilità che qualcuno faccia da ponte tra la strada e la consolle, tra l’istanza sociale e la sua elaborazione sonora.
Il DJ come “agitatore culturale” è diventato DJ come “animatore di lusso”. La differenza non è nel BPM: è nel pubblico, nel contesto, nella funzione sociale.
Forse la rinascita non passerà dai palazzi dell’entertainment, ma dalla capacità di ricostruire ecosistemi dove il DJ torni a essere quello che era: non una star, ma un traduttore. Non un performer, ma un antenna.
Se non riconosciamo questa mutazione antropologica, continueremo a confondere la mappa con il territorio: avremo DJ ovunque, ma nessuno saprà più cosa significhi essere veramente DJ.
[Prima parte di un’indagine che metterà in relazione la crisi culturale del DJ con la proliferazione di false narrazioni amministrative che gravano su una figura in cerca di nuova identità]

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