Neo post-punk: galassie sonore, corpi mutanti, scene in movimento

Reading Time: 7 minutesDimenticate il revival: il neo post-punk è oggi una lingua viva, mutante e globale. Dall’Inghilterra all’Italia, passando per New York, Berlino e Tokyo, una rete di suoni, corpi e urgenze ridisegna il presente. Tra groove, rabbia, poesia e rumore: un’indagine radicale su una controcultura che non vuole farsi etichettare.

Neo post-punk: galassie sonore, corpi mutanti, scene in movimento

<a href="https://unsplash.com/photos/standing-man-on-stage-SVDfhkDp4vw?utm_source=chatgpt.com">Credit: Wesley Tingey / Unsplash</a>

Reading Time: 7 minutes

Dal rumore delle rovine alla lingua viva del presente

Nota: l’articolo “Disordine controllato: il neo post-punk come lente del presente” non fa parte numerica di questa serie, ma rappresenta un compendio parallelo in cui si approfondisce il senso e l’uso del termine “neo post-punk“.
È nato da un confronto di idee con chi sostiene che il post-punk sia finito negli anni ’80 e che tutto il resto sia solo revival senz’anima. Rispetto l’opinione di chi ha espresso questo dubbio, ma è, appunto, un’opinione personale.
A noi, invece, interessa ciò che si muove nel presente in una chiave di “movimento” o “scena“, per quanto anche slegate e lontane tra loro.

L’idea che ci guida è che una scena non debba per forza essere omogenea o centralizzata per esistere. Al contrario: è proprio la somma di tante unicità, ognuna con la sua voce, il suo contesto, la sua urgenza, a costruire una forza collettiva.
È questa diversità interna all’“uno” che fa di un insieme un movimento. Le frizioni, le differenze, le dissonanze: tutto contribuisce alla vibrazione comune.

C’erano i Joy Division, i Wire, i Gang of Four. Ma quello era il punk che diventava altro.

Poi c’è stato l’altro che diventava altro ancora. E ora ci siamo noi, dentro il rumore delle rovine.

Questa è una storia che non segue le mappe. Nessuna guida per città, nessuna linea metropolitana del post-punk contemporaneo. Solo traiettorie che si incrociano, si rompono, si inseguono.
Non c’è un centro, non c’è una scena unica: c’è un’eco. E quella eco oggi si sente ovunque, anche se a volte fa più rumore nel silenzio.

Negli ultimi anni il post-punk ha smesso di essere revival. È diventato una lingua viva, corrosiva, reinventata. Un gesto politico, un urlo trattenuto tra i denti.

Non importa da dove arrivi: conta cosa lascia.


Frammenti di un fronte: UK, America, altrove

In Inghilterra, la miccia è esplosa tra il 2018 e il 2021.
I Shame hanno aperto il fuoco con “Songs of Praise”, seguiti da IDLES e Fontaines D.C. (Irlanda).

Poi The Murder Capital, che uniscono intensità live e fragilità lirica; i Just Mustard, tra shoegaze e atmosfere post-industriali; i Silverbacks, che incrociano l’energia del post-punk con melodie pop sghembe.

E ancora: Black Country, New Road, Dry Cleaning, Squid, Black Midi.

Non una scena, ma un fronte, dicevamo. Ogni band un’estetica, un attacco, una visione: spoken word, dissonanze jazz, ossessioni ritmiche, ironia abrasiva.
Come se il punk si fosse laureato, ma avesse ancora voglia di picchiare duro.

Eredità caraibica e traiettorie sonore britanniche

L’influenza della diaspora caraibica – in particolare giamaicana – sulla musica britannica è un’eredità profonda, viva sin dagli anni ’70 grazie alla generazione Windrush.
Il reggae, il dub, lo ska hanno intrecciato le proprie radici con quelle del punk, dando vita a ibridazioni che hanno segnato l’identità del post-punk delle origini.

Oggi, nel cuore della scena neo post-punk, quell’influenza torna a farsi sentire, anche se in forme nuove, contaminate e meno riconoscibili a prima vista.
Vale la pena soffermarci con una sezione dedicata.

Band come i The Skints incarnano questo incontro: mescolano reggae, dub, punk rock e soul con una sensibilità urbana che li rende unici nel panorama britannico. Il loro stile, definito da qualcuno “tropical punk”, è un’evoluzione diretta della Londra multiculturale.

Un’altra testimonianza arriva dalle Big Joanie: trio femminista nero londinese, che pur adottando una struttura punk minimale, si muove anche tra inflessioni soul, armonie vocali e racconti che portano con sé un’eredità culturale profonda. Il loro stesso nome è un omaggio alla cultura nera e alla madre della cantante, Joan.

Anche le Trash Kit, con la chitarrista Ray Aggs (attiva anche in Sacred Paws e Shopping), portano nel post-punk britannico un’influenza ritmica che viene da lontano: afrobeat, highlife ghanese, poliritmie che si intrecciano con l’urgenza punk in un risultato che è tutto contemporaneo.

Queste band – pur marginali per esposizione mainstream – raccontano un’altra Inghilterra. Una che non si riconosce solo nelle chitarre post-industriali o nell’intellettualismo parlato, ma in un corpo a corpo costante con il ritmo, con la danza, con le radici migranti.
Una scena che, pur non essendo un blocco coeso, dimostra come l’eredità caraibica non sia scomparsa, ma abbia semplicemente cambiato pelle.


America

Negli Stati Uniti, e in particolare a New York, il post-punk contemporaneo si è manifestato in forme ibride e spesso viscerali.

Tra le band più rilevanti ci sono i Geese, che oscillano tra indie art-rock e post-punk, con strutture nervose e un’attitudine scomposta ma efficace. Una presenza ibrida, al confine del genere.

I Bodega uniscono minimalismo ritmico, spoken word tagliente e ironia sociopolitica. Le loro performance oscillano tra concerto e manifesto, tra critica alla vita digitale e pulsione da dancefloor postmoderno. In bilico tra arte concettuale e pogo.

I P.E., nati da membri dei Pill, si muovono tra elettronica e rabbia art-punk. Fondono synth ossessivi, groove spezzati e vocalità spigolose in una forma musicale che sembra sempre pronta a esplodere o dissolversi. Il loro approccio è tanto fisico quanto cerebrale, tra tensione urbana e gestualità live instabile.

I Guerilla Toss fondono post-punk e psichedelia deviata. Usano synth acidi, voci filtrate e ritmiche spezzate per creare un mondo sonoro alieno e febbrile, tra euforia lisergica e attitudine no wave.

I Priests, da Washington D.C., coniugano tensione politica e senso melodico. Le loro canzoni sono dichiarazioni ideologiche incastonate in strutture musicali che alternano abrasività e apertura, mantenendo sempre viva la spinta militante del punk originale.

La scena newyorkese è ulteriormente animata da band come i Brutus VIII, ossessivi e distopici, i The Wants, più cupi e meccanici rispetto ai Bodega da cui derivano.

Cumgirl8 uniscono performance art, groove punk e provocazione post-femminista. I loro live sono azioni artistiche mascherate da concerti, tra synth scuri, estetica cyberpunk e slogan queer. Sono una dichiarazione contro la norma e un inno al corpo politico, sessuale, mutante.

I Public Practice, che riscrivono il funk-punk con estetica da dancefloor obliquo. Con Sam York e Vince McClelland (già nei Wall), intrecciano linee di basso sincopate, spoken word teatrale e groove rétro in uno stile che evoca i Talking Heads e li proietta in uno scenario post-digitale, ironico e lucidamente paranoico e i Model/Actriz, che incarnano forse il punto più fisico, ansiogeno e sensuale di questa corrente.

Il noise, il groove, l’attitudine punk e la decostruzione sonora convivono in una scena disomogenea ma fortemente identitaria, dove ogni progetto è un gesto specifico, eppure parte di un respiro collettivo.


Altri altrove

In Canada, i Crack Cloud partono da un collettivo di recupero psicologico e trasformano la fragilità in energia performativa, tra post-punk, arte visiva e impegno sociale.

In Francia, i Structures aggiornano i codici estetici e ritmici del post-punk con una pulsazione più club-oriented, dove i riferimenti anni ’80 si intrecciano con un’urgenza contemporanea.

In Germania, i Die Nerven gridano la nevrosi esistenziale con suoni ruvidi e testi in tedesco. Il loro approccio, sebbene radicato nel post-hardcore e nel noise-rock, dialoga a tratti con la freddezza meccanica e la ripetitività ipnotica della techno tedesca più oscura.

Gli Isolation Berlin mescolano krautrock, romanticismo cupo e minimalismo emozionale. Le loro atmosfere crepuscolari sembrano affiorare da una Berlino notturna e digitale, in cui l’eredità della cold wave incontra i fantasmi della club culture post-rave.

Nei Paesi Bassi, i Rats on Rafts oscillano tra post-punk e psichedelia claustrofobica, tra omaggi alla no wave e derive lisergiche. Le loro trame ritmiche ipnotiche e le pulsazioni ossessive evocano anche l’eco sotterraneo della new beat belga e di certa techno lo-fi di inizio anni ’90, riformulata in chiave post-apocalittica e performativa.

In Australia, i Total Control e i Low Life declinano la paranoia urbana in forma di groove marcio, punk sintetico e introspezione scorticata.

In Giappone, gli Otoboke Beaver combinano velocità hardcore, estetica kawaii e femminismo acido, mentre i MASS OF THE FERMENTING DREGS uniscono shoegaze e frenesia punk in un suono energico e traslucido.

Dirty old fart is waiting for my reaction
by Otoboke Beaver おとぼけビ~バ~
Dirty old fart is waiting for my reaction by Otoboke Beaver おとぼけビ~バ~

Infine, in America Latina, collettivi come le Las Kellies (Argentina) e i Mint Field (Messico) contaminano il post-punk con approcci psichedelici, dub e dream pop, creando un linguaggio proprio che trascende le etichette.

Non solo post-punk, ma una mutazione continua: tra no wave, noise, industrial, elettronica, poesia. Non solo post-punk, ma una mutazione continua: tra no wave, noise, industrial, elettronica, poesia.


Galassie italiane: suoni, urgenze e traiettorie indipendenti

In Italia, qualcosa è cambiato. Non è stato un’esplosione, ma un lento fermento. Come se, negli ultimi anni, una nuova generazione avesse cominciato a trovare il proprio modo per gridare — senza imitare, senza cercare di piacere.
È una fame più che una moda: una necessità di espressione che si manifesta in suoni ruvidi, ibridi, spesso scomodi. Un’urgenza che rifiuta l’etichetta, ma non rinuncia a dire qualcosa.

Band come QLOWSKI, Sonic Jesus, Hån, Rev Rev Rev, Marnero, WOW, His Clancyness, Radura, Hund, Altaj, Ofeliadorme, R.Y.F., Urali, Eugenia Post Meridiem, Bologna Violenta, Kokoshca, Furor Gallico (sì, anche il folk metal può dire qualcosa qui), fino alle realtà DIY più oscure e locali.

È una galassia, non una lista.

Non c’è più la pretesa di suonare inglesi, ma nemmeno quella di farsi etichettare.

La distribuzione è frammentaria ma vitale: dischi che escono su cassette autoprodotte, Bandcamp come luogo di culto e archivio vivo, e una costellazione di etichette minuscole ma curatissime, come To Lose La Track, Maple Death Records, WWNBB collective o Bronson Recordings.

Ecco alcune delle radio italiane tra le più attive nella diffusione di queste sonorità:

  • Radio Raheem (Milano): web radio indipendente con programmi dedicati a post-punk, new wave, elettronica e sperimentazione sonora.
  • Radio Banda Larga (Torino/Berlino): community radio aperta a format musicali alternativi e artisti emergenti.
  • NEU Radio (Bologna): radio online con curatela musicale attenta e selezioni che spaziano dall’indie rock alla sperimentazione.
  • Radio Città Fujiko (Bologna, FM 103.1): storica emittente bolognese con programmazione alternativa.
  • Radio Onda d’Urto (Brescia): radio indipendente in FM con forte attenzione alla scena underground.
  • Radio Blackout (Torino, FM 105.25): autogestita e politicamente schierata, con trasmissioni dedicate alla musica alternativa.
  • Radio Atlantide (web): la nostra casa, laboratorio e spazio di trasmissione e racconto per queste traiettorie sonore.
  • Radio Papesse (Firenze): dedicata a arte sonora e musica sperimentale.
  • Controradio (Firenze): tra le prime radio italiane ad aver promosso il punk e post-punk, ancora attiva nel sostegno alla musica indipendente.
  • Radio Città Aperta (Roma, FM 88.9): radio comunitaria con forte vocazione per la musica alternativa.
  • Radio Ciroma (Cosenza, FM 105.7): autogestita e indipendente, programmazione aperta al post-punk e noise rock.
  • Radio Zammù (Catania, FM 101.0): radio universitaria con programmi dedicati alla scena emergente.

La forma è liquida, il suono è ruvido, il messaggio si propaga per contatto, come una vibrazione sotterranea che attraversa i corpi e i cavi. La forma è liquida, il suono è ruvido, il messaggio si propaga per contatto, come una vibrazione sotterranea che attraversa i corpi e i cavi.


Futuro imperfetto: corpo, suono, mutazione

Il futuro del post-punk non guarda al passato come a una reliquia da replicare, ma come a una mappa da interrogare. Una fonte da cui attingere per orientarsi, non un modello da imitare. Quello che ci interessa è il presente, quello che pulsa adesso. Dove la tensione sonora diventa gesto, corpo, urgenza.

È una mutazione costante, una trasformazione che passa per il corpo, il suono, la presenza scenica. Non si tratta di citare un’estetica passata, ma di aggredire il presente con nuovi linguaggi.
In questo senso, i Model/Actriz rappresentano uno dei punti più avanzati di questa traiettoria: un live che è performance fisica, erotica, disturbante.

Un suono che è urlo, pulsione, desiderio dissonante. Una danza spezzata che non si lascia ridurre a nostalgia o revival.

In parallelo, come approfondito nel secondo capitolo della serie, “Rumore di adesso”, si afferma una corrente sonora dove groove, ironia, disincanto e decostruzione coesistono in equilibrio instabile.

È un’altra faccia dello stesso movimento, che attraversa generi, si insinua nei club, nei teatri, nei centri sociali, nelle gallerie, nelle radio. Che prende i codici del post-punk e li infetta con il funk, il jazz, la techno, la spoken poetry, la performance art.

Non è facile chiamarlo per nome. C’è chi insiste a chiamarlo post-punk. A volte lo è. Ma più spesso è qualcos’altro. Noi lo chiamiamo neo post-punk.
È tutto ciò che ancora ci parla, che ancora ci turba, che ancora ci accende. Come tutto ciò che vale la pena ascoltare.