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Jerusalema ci riporta nel grembo di Mama Africa

Reading Time: 6 minutes La Radio tradizionale non esiste più. La cosa che però non si capisce ancora – in verità, è nota ed è la giustificazione che più altre viene usata dagli addetti ai lavori – è se sia la Radio ad essersi adeguata alle domande dell’ascoltatore o viceversa, è una sorta di assuefazione per mancanza di alternative a cui l’ascoltatore è stato sottoposto dai modelli radiofonici commerciali?

Spoek Mathambo
Reading Time: 6 minutes

Il mondo è cambiato e non si torna indietro, fatevene una ragione.

Se si guarda alla Radio dal punto di vista dell’ascoltatore, difficilmente ci si preoccupa – o si conoscono – dei meccanismi che governano la programmazione musicale della radio che stiamo ascoltando.
La si accende per darsi un “sottofondo”, quanto più possibile non impegnativo. Per ascoltare dei suoni tra un intervento e l’altro dello speaker di turno, che a sua volta, sarà interrotto dagli spot pubblicitari. Quando poi, l’orecchio interno tende a chiudersi e si smette di pensare… e di “sentire”.

La Radio tradizionale non esiste più

La cosa che però non si capisce ancora – in verità, è nota ed è la giustificazione che più altre viene usata dagli addetti ai lavori – è se sia la Radio ad essersi adeguata alle domande dell’ascoltatore o viceversa, è una sorta di assuefazione per mancanza di alternative a cui l’ascoltatore è stato sottoposto dai modelli radiofonici commerciali. Ma che sia la prima o la seconda ipotesi, oppure un mix tra le due, poco importa.
Se dobbiamo parlare di problema, è semplice: quel mondo lì, quella Radio non esiste più.

In pratica è come se nel corso del tempo, la Radio si sia costruita il proprio “ascoltatore tipo”, generico e che non facesse troppe domande.

E questo diventa ancora più evidente con il successo di Jerusalema che, intendiamoci, è un gran bel pezzo di dance facile – per certi aspetti la si potrebbe anche definire IDM, come la chiamano gli amati del genere – ma basta scavare, anche solo appena poco sotto, la sua allegra superficie sonora per scoprirne sfaccettature inedite.

Si è persa l’abitudine a porsi domande, a scoprire che anche dietro ad un “tormentone” dance ci possa essere una storia che genera altre storie per un unico, fantastico universo in continua evoluzione. Capace di generare trasformazioni della narrazione sempre nuove. Ma soprattutto, sono storie che nascono dal basso, senza l’intermediazione di nessuno.

Lo vedremo nel terzo di questi articoli, ma questa ulteriore evoluzione, oggi passa sotto il nome di “Era Biomediatica” con la personalizzazione dei mezzi di comunicazione, ovvero con la “disintermediazione.

Partendo da Jerusalema di Master KG, ecco che si può scoprire l’esistenza di vita anche al di fuori del nostro piccolo cortile per arrivare a conoscere Spoek Mathambo col suo Future Sound Of Mzansi.

Ma è solo un passaggio della nostra storia, di uno “scheletro fantasma” e della sua visione artistica.

Spoek Mathambo, il fantasma del Mzasi

Se nell’articolo precedente, “Dal tormentone Jerusalema alla Transemedialità: perché?” avevamo cominciato ad approfondire alcuni degli argomenti usciti dal post di Luca Ruggero Jacovella pubblicato giorni fa, sul suo profilo Facebook, oggi intraprendiamo un breve viaggio per vedere dove nasce il successo di Master KG.

Con i contributi di Marco Stanzani, CEO di Red&Blue Music Relations e Umberto Damiani della indipendente IRMA RECORDS, ci eravamo lasciati in direzione Sud Africa, da anni sorgente di una vera rivoluzione culturale che mette al centro i suoni di quella terra e paese da cui, appunto, proviene Master KG con la sua Jerusalema.

Future Sound Of Mzansi Parte Prima

Future Sound Of Mzansi è il film documentario di Spoek Mathambo e Lebogang Rasethaba. Protagonista del documentario: la scena elettronica uscita dalle township e dalle aree urbane di città come Durban, Cape Town e Johannesburg per conquistare il mondo.

Parte Seconda

La seconda parte di Future Sound Of Mzansi, Spoek Mathambo e Lebogang Rasethaba è focalizzata sulle questioni di razza. E di come il Sudafrica sia riuscito a dare una propria autenticità alla musica elettronica, superando ogni tipo di segregazione.

Parte Terza

Future Sound Of Mzansi si conclude con un viaggio dentro il clubbing del paese africano. Spoek Mathambo e Lebogang Rasethaba ci fanno entrare nelle feste che nascono dalle township.

In questo ultimo episodio, scopriamo anche cosa è successo a DJ Mujava, il produttore dietro “Township Funk”, probabilmente il più grande successo mai uscito dal Sud Africa, sino ad oggi.

Esatto, fino ad oggi. Perché alla domanda che esce dal documentario su quanto questa “rinascita africana” potesse avere un seguito internazionale, oggi possiamo rispondere con Jerusalema. Sta’ a noi capire cosa c’è di più.

Mama Africa

È possibile che il successo di Jerusalemadi cui in Italia ci si accorge solo ora – sia rimasto come sepolto sotto una programmazione radiofonica in perenne ritardo e legata a vecchi schemi e format – “perché in fondo qui da noi la musica non è male” – dove siamo ancora portati a pensare alla musica del continente africano come a “World Music“, quasi come fosse solo una manifestazione folcloristica ad uso e consumo del turista a cui vendere uno stereotipo che gli dia tranquillità.

C’è come l’incapacità, per la Radio, di raccontare di nuovo delle “storie”, di unire i puntini, come ci dirà più tardi Fabio Negri. Legati ad uno schema, a dei modelli a cui sempre più persone faticano a riconoscersi e che li allontano dalla Radio.

Anche l’Africa si è liberata da queste catene, in molti campi della cultura e dell’arte, perché da almeno una decina d’anni, in una sorta di riunificazione tra gli “artisti della diaspora” con quelli rimasti nel continente africano, la musica è tornata nel grembo di Mama Africa.

K’naan in My Mother’s Pearls ft. Sade

La musica come cura contro la guerra

K’NAAN è uno dei tanti “artisti della diaspora” africana quasi nel suo significato letterale. Quando infatti, si imbarcò su uno degli ultimi aerei in fuga da Mogadiscio, dove la guerra civile nel 1991 aveva travolto definitivamente il paese lui aveva solo 14 anni. Una zia cantante e il nonno poeta, lo avevano dotato di quel DNA necessario affinché, una volta rifugiatosi con la madre a New York dove già viveva il padre insieme a molti altri esuli somali e poi in Canada, iniziasse la sua carriera musicale. Prima con lo Spoken Word dai toni molto reggae, poi con il Rap e l’Hip-Hop, anche se in realtà i secondi sono la conseguenza dei primi.

K’NAAN è conosciuto in tutto il mondo – probabilmente – per Wavin’ Flag, un brano del 2009 che in una versione remixata, il Celebration Mix, venne scelta dalla Coca Cola per il Campionato del Mondo del 2010 tenutosi in Sud Africa. Quel campionato che la nazionale italiana vide solo per un attimo, eliminata al primo turno.

Anche J.P. Bimeni è un rifugiato spinto via dal suo Paese e che ha trovato nella musica, il proprio riparo e la cura alla sofferenza di cui è stato testimone e protagonista.

Anche la sua storia ci parla di guerra, continui colpi di Stato, genocidi.

Video J.P. Bimeni & The Black Belts – Honesty is a Luxury

Forse l’Africa di J.P. Bimeni è meno percettibile di quella di altri artisti, o forse è solo che non siamo ancora abituati ad entrare in empatia con gli altri. A penetrarne il sentimento, perché in molti di loro c’è appunto, il trascinarsi uno shock post traumatico derivato dalle loro esperienze che nella musica ottiene sollievo ed espressione.

Un “luogo” dove potersi incontrare e riconoscersi per valori comuni, dove poi ogni tipo di confine è annullato.

Ritorno alle radici

L’Africa negli ultimi anni si è come vendicata del resto del mondo. Ha dato una nuova identità al Pop, quello stesso che per lungo tempo l’aveva saccheggiata delle sue menti migliori, piazzando un po’ ovunque i suoi “grandi successi.

Il grande fermento che ha visto l’Africa tornare ad essere sempre più protagonista sullo scenario mondiale è, dal 2011, la missione del più importante hub di musica, cultura, arte, creatività e politica sul continente africano: Okay Africa.

Tanti sono i nomi che si potrebbero citare, da Fantasma, il gruppo formato proprio da Spoek Mathambo e da DJ Spoko, Bhekisenzo Cele, Andre Geldenhuys, Mike Buchanan. Una combo che è riuscita nella non facile impresa di mischiare elettronica, hip-hop, Maskandi – musica popolare Zulu – shangaan electro, house sudafricana, psych-rock e punk. Senza poi dimenticare per questa “playlist”, Batuk.

Una lista lunghissima che potrebbe continuare con Petite Noir e Fatoumata Diawara. Dal predestinato Nakhane, alle musiche di Capo Verde con Elida Almeida, per arrivare alla voce d’Africa: Oumou Sangarè, la “Songbird of Wassoulou”.

L’incredibile video di Oumou Sangarè del brano Kamelemba

Di Oumou Sangarè si potrebbe parlare a lungo e lo faremo ma quello che più interessa qui, è che con lei si è creato un ponte culturale immediato tra Mama Africa e il cosiddetto “nostro” mondo occidentale.

Ci sono poi i temi che Oumou Sangarè affronta, che segnano la sua cifra artistica e dell’impegno verso la condizione delle donne del suo paese, il Mali e dell’Africa intera.

È quell’ulteriore elemento che andrà a formare una sorta di nodo gordiano che ci porta a Mood 4 Eva di Beyoncé, una straordinaria carriera musicale la sua, diventata poi icona del femminismo e del Black Power.

Mood 4 Eva il brano da Lion King di Beyoncè con intro di Diabari Nènè di Oumou Sangarè

Potere al Contenuto: la creazione dei mondi in cui riconoscersi nel linguaggio della radio

La Radio e lo dirò ancora in questi articoli, ha perso la sua capacità di “scoprire e diffondere”, quel suo modo particolare di raccontare delle sue storie, di creare la sua “narrazione”. Una serie di fattori ne hanno determinato il mutamento.

Per primo quello economico, poi quello tecnico riducendo così, a figure praticamente inutili i DJ o i conduttori, così come gli autori e tutti coloro che hanno piegato via via, la propria creatività al potere del “dato demografico generico“, perché “numeri e visibilità avevano preso il sopravvento; la copertura e la viralità a tutti i costi: ovvero l’antitesi della “transmedialità“.

Ho chiesto a Fabio Negri, che conduce Soul (R)Evolution su Radio Milano International, di parlarci come lui, insieme a pochi altri, sia riuscito a riportare il contenuto al centro del suo fare Radio. Come col suo programma “Soul (R)Evolution“, abbia dato la bussola a chi viaggia attraverso i quattro punti cardinali della Black Music. Soprattutto quella nuova ma senza dimenticare il lungo e spesso sofferto cammino che questa forma espressiva ha compito nel corso decenni precedenti.

Rotta verso l’ignoto?

La Radio, per sua natura, è un potentissimo strumento di “terraforming” grazie alla capacità dei suoi autori di creare interi nuovi pianeti, renderli “visibili” alle orecchie degli ascoltatori che ne popoleranno i continenti, le città, le strade. Per lungo tempo è stata la sola RAI ad occuparsi di questa genesi e, oggettivamente, svolgeva questo compito più che egregiamente.

A metà degli anni ’70 la famosa Sentenza della Corte Costituzionale, mise fine a quel monopolio aprendo di fatto alle Radio Commerciali.
Ma questa è solo una parte di tutta un’altra storia.

 

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